sabato 5 novembre 2016

Il rosso e il blu - M. Lodoli


Il libro deve probabilmente esser la raccolta di articoli scritti sulla scuola, e purtroppo ciò appesantisce a volte il discorso poiché i brevi capitoletti seguono un ordine tematico (uno/due capitoletti sul bullismo, due/tre sull’arrivo dell’estate e il dilemma compiti sì o no, ecc…), ma purtroppo nei diversi capitoletti spesso gli argomenti si ripetono, mentre sarebbe stato meglio trattare l’argomento in un unico capitolo, in modo completo e unitario.

In linea generale sul libro pesa un po’ il moralismo contro la società della televisione: l’argomentazione è sempre la stessa e cioè che la tv che ha rovinato la società, dominata dalla faciloneria e dalla sicumera del successo. Idee abbastanza condivisibili anche se apparentemente un po’ superficiali e buttate lì più come chiacchiera da bar.

Nel libro ci sono però alcune parti più narrative che mi sono piaciute molto, soprattutto perché mi hanno lasciato libera di lasciar sbocciare pensieri personali.  Le/li descrivo qua di seguito.

Molto bella la descrizione degli scrutini e della valutazione degli studenti come specchio della personalità dei docenti: “Alla fine ognuno ha raccontato poco e niente della classe e moltissimo di se stesso. I numeri sono pennellate di un autoritratto, luci e ombre di uno specchio fedele” (p. 51). Una descrizione che porta a una riflessione interessante sul proprio modello valutativo e su cosa rappresenta di noi, dei nostri valori, della nostra idea di istruzione, ecc…

Interessante anche la descrizione dell’esame pratico delle alunne dell’indirizzo di moda: “loro, che nei temi di italiano faticano a riempire di parole due colonne di foglio protocollo, se la cavano alla grande con matite, pennarelli, forbici, sanno pensare al presente e immaginare al futuro partendo da un manichino da vestire.” (p. 76-77). Lodoli ci ricorda come “il pensiero non passa obbligatoriamente attraverso libri e dibattiti, che ogni pazienza permette di arrivare al cuore delle cose. […] La cura, l’attenzione, l’impegno per trasformare un’idea vaga in una cosa reale, per tradurre un pensiero in un gesto esatto: sono attitudini che ne nostro tempo blaterone interessano sempre meno. […] Le mie ragazze sanno ciò che fanno e lo fanno bene”. Senza scomodare Gardner e le intelligenze multiple, questo insegnamento è sempre da tenere sotto gli occhi, soprattutto noi docenti letterati: ci sono molti percorsi per l’acquisizione delle competenze e bisogna aiutare gli studenti a scoprire i propri.

Un’altra pagina che mi voglio appuntare è quella che commenta la vicenda di “un biglietto osceno infilato nella borsa di una professoressa” (p. 124-125): Lodoli sottolinea come stia venendo a mancare il processo di responsabilizzazione dei ragazzi, sempre scusati o troppo presto perdonati, privati così della possibilità di “incontrare il limite, il confine, la sbarra, [della possibilità di] costruirsi la volontà e le motivazioni profonde per scavalcare, se serve, quel limite. Per contestare un professore o un genitore bisogna affrontare una sfida morale e intellettuale, bisogna avere la forza per controbattere, per far valere le proprie ragioni, anche per provocare: è la dialettica tra le generazioni, il motore del mondo. Un fiammifero si accende solo contro un muro, nel vuoto s’inumidisce e non brucerà e non illuminerà mai niente.”

Un’altra notizia interessante da cui trae pensieri che fan riflettere è la notizia di alcune classi formate da soli alunni ripetenti. Lodoli, paragonando quelle classi alla galera, che purtroppo spesso rende peggiore chi la subisce, sottolinea come invece sia l’incentivo di una nuova sfida, di compagni più piccoli ma più preparati a far fare, talvolta, uno scatto di orgoglio nei ragazzi. Un ambiente povero di stimoli non può stimolare ragazzi che così dimenticherebbero “che possono ancora galoppare e saltare alla grande gli ostacoli” (p. 129).

Una riflessione triste l’ho fatta leggendo invece la descrizione dello stato d’animo del professore che ascolta i maturati sognare la nuova vita, terminato il liceo: “I professori sorridono, approvano e già sentono la tanaglia che gli stringe il cuore. Tutto passa, anche questi ragazzi vanno via. Solo noi ricominceremo tutto da capo, a settembre, con venti bambini sbarcati dalle medie, e tutto sarà uguale come sempre” (p. 146). Se mai arriverò a lavorare per anni in uno stesso luogo riprenderò in mano queste parole che al momento mi fanno solo rabbia e pena:  mi piace infatti pensare che il professore non dovrebbe vivere la routine scolastica come un masso di Sisifo; gli studenti cambiano, cambiano le sfide; cambia il docente stesso perché cambia la didattica, che può essere migliorabile; cambia la società attorno, che può essere linfa nuova per la propria didattica. Questa idea dell’insegnante sempre fermo a vedere passare il fiume mi mette molta tristezza.

Interessante anche la riflessione seguente sui compiti delle vacanze. Ne sono sempre stata una sostenitrice, anche se non accanita, ma Lodoli con poche immagini mi ha dato nuovi spunti su cui riflettere: per quanto si possano dare compiti ai ragazzi, “l’estate è il loro regno, e i professori restano bloccati ai confini. Per ogni ragazzo questo è un tempo destinato ad altre forme di crescita, allo sport, all’amicizia, all’amore. Qualche compagno [….] magari […] gli parlerà di un poeta che gli  è piaciuto tanto. Tutto accadrà seguendo la logica imprevedibile e magica dell’adolescenza. E’ meglio che la scuola si concentri sui suoi nove mesi, che sono tanti, se usati bene” (p. 147-148). Per la serie: se non lo hai fatto appassionare alla lettura in nove mesi cosa speri che possa fare da solo in tre? Resta il dubbio dell’allenamento mentale, ma ci rifletterò!

Belle anche le pagine sull’importanza della noia  (p. 152-153), che – nonostante sia oggi, ricorda Lodoli, considerata un delitto capitale dalla società del perenne divertimento – è in realtà dominante soprattutto nell’adolescenza: “la vita è fatta di tempi morti, di zone deserte dove pare non accada niente, di lunghi pomeriggi solitari” (anche se mi chiedo se sia anche oggi così, all’epoca delle chat e di what’sApp). Lodoli sottolinea l’importanza di questi momenti, poiché “E’ in questi momenti immobili che nasce una consapevolezza nuova [nascono] tanti pensieri sull’amore, su noi stessi, pensieri che ci hanno modificato. […] Non trascuriamo il valore degli attimi di ristagno. In quelle pause un ragazzo nota altre cose, che stanno nella scuola e sono insegnamenti preziosi anche se non fanno parte di nessun programma ministeriale. Nota le scarpe sformate del professore che spiega al vento [….] scopre all’improvviso la propria malinconia, la propria inadeguatezza, l’insofferenza, e da quelle verità riparte.”

Infine interessante la riflessione sul carattere rovinoso della Facilità a tutti i costi, che – a differenza della Semplicità, definita da Brancusi come una “complessità risolta” – porta ad una cultura dove si evita “ogni fatica, ogni peso, ogni difficoltà” (p.156-158), crescendo ragazzi che ignorano “quanto la vita è dura, che tutto costa fatica e che per ottenere un risultato anche minimo bisogna impegnarsi a fondo […] “Le cose non sono difficili a farsi, ma noi, mettere noi nello stato di farle, questo sì è difficile” scriveva ancora Brancusi. Mettere noi stessi nello stato di poter affrontare la vita meglio che si può, di fare un mestiere per bene, […], questo è proprio difficile, ed è necessario prepararsi per anni, prepararsi sempre.”. Bella in particolare la riflessione sulla fatica del cambiamento: “E se addirittura volessimo avanzare di un palmo nella conoscenza di noi stessi e del mondo, trasformarci in essere appena migliori, più consapevoli e sereni, dovremmo ricordarci la fatica e la pena che ogni metamorfosi pretende, come insegnano i miti classici, le vite degli uomini grandi, le parole e le posizioni dei monaci orientali”. Il tema si collega alle pagine seguenti, nelle quali una ragazza spiega come i soldi siano la nuova strada per vivere fuori dalla realtà: la realtà è la povertà quindi una vita da nababbo è una vita da “sogno” nel vero senso della parola: non reale neanche per chi la vive. “Beati gli ultimi” – conclude Lodoli – “perché solo loro è il regno della realtà” (p. 161).



In sostanza, un libro con molti stimoli interessanti, anche se un po’ annacquati, Sono contenta di averlo letto, ma anche di averlo preso in biblioteca!

giovedì 20 ottobre 2016

Adua - I. Scego

Per la recensione, rimando al blog Impronte di Caffè, che ne ha sintetizzato perfettamente la discussione.
Un libro che non mi spiace di aver letto, perché di colonialismo italiano so poco, ma che ha un potenziale non sviluppato: troppi argomenti, troppa superficialità.

martedì 31 maggio 2016

L'altra sete - A. Torriani

Interessante la descrizione della negazione della malattia (la scoperta del diabete) e quella del dolore per la perdita dell'uomo amato. La descrizione della difficoltà di trovare un senso, un motivo di gioia. In particolare
interessanti alcune descrizioni del dolore fisico dato da certi cortocircuiti mentali.
Carine alcune descrizioni del difficile rapporto madre-figlia, della difficoltà di liberarsi dalle catene materne per una piena autonomia.
Banali alcune scelte stilistiche (se non si è Montale, eviterei frasi come "magra come il suono di una piuma" o "una fila di pigiami in sequenza d'imbarazzo"...).
Ma soprattutto peccato per l'epilogo: spiega l'esordio, cioè (spoiler) come è avvenuta la morte della persona amata e rende tutto banale, inutilmente provocatorio, inutile. Non era necessario sapere il come, soprattutto perché era chiaro da alcuni indizi seminati nel romanzo che fosse avvenuto per un incidente di macchina. Questo bastava: il romanzo si poggiava sulla descrizione di un'assenza, non era fondamentale come fosse avvenuta.
Peccato.

martedì 24 maggio 2016

Dove finisce Roma - P. Soriga

Appunti sintetici.
Cosa è piaciuto:
- la caratterizzazione dei personaggi: pare di averli davvero conosciuti, grazie alla descrizione tramite le azioni, gli sguardi, i cenni silenziosi del capo.
- la formazione della protagonista, giovane donna pronta a comprendere aspetti quali le ingiustizie sociali, la necessità dell'impegno nella Resistenza, ma al tempo stesso ancora ragazza: in parte avventata (aderisce alla Resistenza sì per spirito di giustizia, ma anche per sconsideratezza), sognatrice (la cotta adolescenziale per il ragazzo bello e stronzo), ribelle (il rapporto-scontro con la sorella Agnese e cognato che le fan da genitori, sia concretamente, accogliendola in casa, sia proponendo un modello comportamentale conservatore/fascista al quale opporsi), scissa tra il desiderio di autonomia e libertà e la nostalgia per il focolare domestico, per la madre e le sorelle lontane, in Sardegna, gli odori di casa (es. quello del camino), le tradizioni famigliari (l'intrecciatura delle palme per la domenica delle palme), la vita piccola e raccolta del paese; la voglia di esser bambina e poter esser abbracciata dalle braccia rassicuranti del padre e al tempo stesso il voler essere donna e abbracciata dall'uomo amato.
- la descrizione sociale della Roma della prima metà del Novecento, con la contrapposizione tra romani e meridionali, tra borghesi e popolo, fascisti e comunisti.
- la descrizione (accennata) della Resistenza romana, dei suoi luoghi (non conoscevo le cave-grotte rifugio), dei suoi quartieri-fortino, come Centocelle, il rastrellamento del Quadraro il 17 aprile 1944, ovviamente lo svuotamento del Ghetto (nel libro il 16 dicembre, anche se da internet mi risulta il 16 ottobre), i bombardamenti, le fosse Ardeatine.

Cosa non mi è piaciuto:
- lo stile, l'assenza di punteggiatura, nonostante la continua alternanza di discorsi (anche diretti!) tra voce del narratore e dei diversi personaggi; punteggiatura che a volte mi obbligava a rileggere delle frasi per comprendere di chi fosse il punto di vista o la voce. Elemento molto fastidioso, che per gran parte del libro me ne ha inficiato il piacere di lettura.
- il finale come interrotto, il non sapere cosa ne è stato dell'ebrea Micol; ma probabilmente è stato così per molti e in fondo non si può chiedere ai romanzi di ricomporre una verità che non sempre trova chiarezza neppure nella vita reale.

sabato 14 maggio 2016

Fuga dal campo 14 - B. Harden

La storia incredibile di un ragazzo nato in un campo di detenzione in Corea del Nord, dove i genitori erano
stati rinchiusi; il padre per una colpa del fratello, la madre per cause non note. Cresce, va a "scuola" (in realtà una sorta di avviamento al lavoro, forzato) assieme a bambini nati come lui nel campo, soggetti agli umori delle guardie (si può morire a otto anni picchiati in classe per aver rubato un paio di chicchi di mais, come una compagna), ignari dell'esistenza di un mondo esterno al campo, di cibi diversi dal cavolo e mais e dai topi catturati e arrostiti (o mangiati crudi per non destare sospetti col fuoco), considerati talmente inutili e sottomessi da non ricevere neppure l'onnipresente propaganda legata ai Leader, padri della nazione.
La possibilità di crescere nell'assenza totale di un'amore famigliare (la madre e il padre sono uniti in matrimonio per volere dei gestori del campo e la madre non degna mai il figlio di amore e attenzione).
Nel libro il protagonista racconta spesso di come l'unico valore appreso fosse quello della sopravvivenza, a costo di sacrificare le persone più vicine (nel caso specifico il tradimento della madre e del fratello, nel timore di una punizione personale) e l'idea che il rimorso e la riflessione sulle proprie azioni possa avvenire solo quando si è "al sicuro": "Nel Campo 14 non era mai stato sfiorato dal senso di colpa. [...] Ma ora era un sopravvissuto adulto, e con l’aumentare del suo distacco emotivo dal campo l’ira lasciava spazio al rimorso e al disprezzo di sé. [...] Avendo visto con i suoi occhi come si comportano le famiglie amorevoli, non riesce a sopportare il ricordo del figlio che è stato." (p. 196).
Questo libro mi ha ricordato molto L'eliminazione, con la differenza che - in quello - il protagonista veniva costretto a degradarsi e a dimenticare la propria umanità per poter sopravvivere, mentre in questo l'aspetto incredibile è che il protagonista nasce in tale contesto e conosce solo quello; aspetto che gli renderà difficile, anche una volta fuggito, riuscire ad apprendere i - per noi normali - sentimenti di amore e fiducia. Questo aspetto fa riflettere sull'importanza, nell'educazione, dell'esperienza personale: solo esperendo l'amore lo posso vivere, capire e riprodurre, da adulto.

sabato 7 maggio 2016

Pyongyang - G. Delisle

Viaggio di lavoro del 2003 nella Corea del Nord.
La difficoltà di vedere la vera Corea: l'isolamento dei lavoratori stranieri/cooperanti, obbligati (i primi) a muoversi sempre con guida e interprete e solo in certe zone (la possibilità di visitare solo due stazioni del metrò e il dubbi oche siano le uniche due opulente).
La costruzione di enormi palazzi che si scopre essere inutilizzati (es. il palazzo del cinema, usato solo una tantum in occasione di un festival internazionale)
La propaganda continua: la presenza in ogni stanza (!) della foto dei due leader, i telegiornali di regime, il museo dell'amicizia.
Mi ha fatto venire voglia di approfondire la conoscenza della Corea del Nord.
Molto interessante!

venerdì 12 febbraio 2016

Chirù - M. Murgia

Il libro mi ha subito dato fastidio e i libri che non lasciano indifferenti in genere non sono tempo perso, che piacciano o meno.

In realtà inizialmente mi ha infastidito un dato stilistico e cioè le eccessive (a mio avviso) similitudini, continue nel testo e in generale il linguaggio iperletterario, a mio sentire artificioso.

In realtà alla fine del testo mi sono chiesta se questo stile non volesse riflettere il narcisimo della protagonista, un'attrice supercolta convinta di essere diversa dalla moltitudine che la circonda ed annoia.
Ora che il libro l'ho finito sono perplessa e non so bene che giudizio tributargli. Da un lato infatti la protagonista mi risulta arrogante e antipatica, con la sua pretesa di poter guidare dei giovani in luoghi "eletti" dove senza di lei non sarebbero arrivati; quando mi sono resa conto che questo intendeva quando parlava di "allievo" e "maestra" son rimasta quasi indignata e basita davanti al fatto che della gente possa davvero porsi in tali rapporti. Ma anche questa forse è una reazione "riuscita" da parte della Murgia, che spesso indaga relazione atipiche; relazioni che - per quanto a me possano sembrare assurde - sicuramente vengono vissute ("sai, la gente è strana").
D'altra parte mi sono detta che questa mia "indignazione" forse non era neppure non voluta. Eleonora nel romanzo non viene di sicuro dipinta in modo esclusivamente positivo (non è l'eroina buona, per capirci) e ho ho avuto a un certo punto l'impressione che la protagonista stessa si rendesse conto di tale suo limite, qi questa sua arroganza, o quantomeno che l'autore facesse emergere questo discorso, per esempio nei dialoghi tra essa e il direttore d'orchestra svedese quando discutono il tema dell'eccezionalità e di come in Svezia non sia ben considerata. In realtà però Eleonora stessa nota come il direttore di fatto sia lui stesso eccezionale e non del tutto integrato nell'idea svedese di omologazione, quindi in realtà non son sicura che nel romanzo tale tentativo di emergere venga davvero messo in cattiva luce. In fondo è Eleonora stessa più volte a riflettere su come l'arroganza possa aver valore, quando la superiorità intellettuale è reale (parlando del suo secondo allievo). Boh
In ogni caso non si può certo dire che Eleonora nel romanzo faccia una bella figura: credo che chiunque possa dire che una donna 38enne incapace di accorgersi che sta giocando coi sentimenti di un 18enne sia quantomeno un filo sprovveduta. Eleonora in effetti viene descritta come fragile sentimentalmente, per tutte le ragioni spiegate relativamente alla sua infanzia, sempre sulla difensiva e ostile al mondo intero (la madre la rimprovera di vivere tutto come una lotta), e come lei stessa ammette, nel ragazzo vede la possibilità di guardare il mondo con occhi entusiasti. Senza accorgersi però che questo suo "usare" il ragazzo potesse ferirlo.
E alla fine? Capisce l'errore fatto e matura grazie al direttore d'orchestra? Trova in lui una stabilità che gli permette di chetare le proprie paure. di non aver più bisogno di uno sguardo giovane sul mondo? Io l'ho interpretato così. Chirù di fatto è l'agnello sacrificale che permette a Eleonora di rendersi conto della propria fragilità, accettarla e superarla (anche grazie alla nuova più matura stabilità emotiva). Povero Chirù? Forse anche no, dato che che nel finale pare esser suggerito che questa esperienza gli abbia permesso di scoprire un mondo artistico al quale aspirare, un'ambizione da coltivare. Anche se la stessa viene in parte criticata dalla protagonista quando insegna a Chirù che di consapevolezza "ne basta un po' per allontanarti da quello che non ti sembra all'altezza, ma ne serve tanta di più per tornare indietro a prendertene cura".
Un continuo ondeggiare del testo tra diversi poli, in una sorta di ricerca di equilibrio.
Probabilmente Eleonora è solo una persona, coi suoi limiti e le sue doti; intelligente, spiritosa, generosa, ma al tempo stesso fragile e per questo capace di ferire. Come tutti d'altra parte.
Bon, alla fine, similitudini a parte, credo che questo libro mi sia piaciuto.